La storia del cammello che piange

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Regia Byambasuren Davaa e Luigi Falorni

Recensione di L.M.

Magico questo documentario. Per tre ragioni.
Innanzi tutto è la realizzazione di un desiderio custodito dalla regista per vent’anni. Nata a Ulan Batar (Mongolia) nel 1971, proviene da una famiglia di nomadi del deserto che dopo la guerra emigra nella capitale. I ricordi di una vita precedente tenuti vivi dalla nonna che raccontava alla nipote storie, leggende e tradizioni di un mondo lontano ma vicino e ancora oggi esistente. Questi racconti sono un patrimonio che Byambasuren Davaa conserva con grande amore e che sono diventati un punto di riferimento a cui attingere per il suo lavoro registico. Infatti il suo nuovo secondo documentario si titola “Il cane giallo della Mongolia” storia ambientata sempre in un villaggio nomade che vede un cane abbandonato e una bimba di sei anni che lo vuole adottare.
Seconda ragione della magia sprigionata dalle immagini di questo documentario è proprio la forza dei protagonisti: una famiglia estesa di allevatori nomadi del deserto. La “location”, un’estesa desertica dove c’è un gruppo di abitazioni caratteristiche, le yurte. Attorno un ampio allevamento di capre, pecore e cammelli.
Ultima magia è la storia: quella del rito musicale che parla agli animali in difficoltà.
Per noi che viviamo in una società dove tutto è previsto, siamo spiazzati nel constatare come anche la sofferenza di un animale, una cammella, possa diventare un problema da risolvere per tutto il nucleo familiare. E’ vero che per i nomadi il cammello è importantissimo: unico mezzo di trasporto, alimento base, con la pelle si rivestono le abitazioni, con i peli si producono corde resistentissime per le loro yurte,
Quando una cammella, dopo un parto difficile, abbandona il suo puledro che così è destinato a morire, entra in gioco il “rito musicale” di cui la nonna raccontava sempre alla piccola Byambasuren, una pratica proveniente dalla tradizione arcaica: solo la musica di un violino può smuovere l’indifferenza della cammella e riavvicinarla al suo piccolo.
Nella famiglia tutti sono impegnati, perfino i figli più piccoli, che sulla groppa di due cammelli si recano alla città vicina per contattare il maestro di musica.
Tutto viene raccontato con una semplicità disarmante.
E i grandi temi della storia umana riemergono nel loro significato più profondo: la solidarietà tra umani, animali e cose. La difficoltà del vivere e produrre quello che si consuma. Convivere con una natura aspra e dura che non dà tregua.
La regista che vive a Monaco per perfezionarsi in cinema, sa che anche il suo paese d’origine dovrà fare i conti con lo sviluppo. Tracce e indizi sono presenti nel documentario: la città vicina, poche case e un mercato, è già contaminata dalla tecnologia, per le strade motociclette e paraboliche, nel negozio le pile, i videogiochi, la televisione. Del resto anche la Mongolia distesa su un territorio desertico, morde il freno per raggiungere la modernizzazione.
Come sarà non lo sappiamo, ma la scena finale ci dà un indizio: i bambini felici assistono all’installazione della parabolica a fianco della loro abitazione. La televisione tanto desiderata. Costo: un gregge di cammelli.