Non desiderare la donna d’altri

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Regia di Susanne Bier

Recensione di Zina Borgini

 

Il titolo originale Fratelli, sia quello tradotto in italiano che tanto sa di sacrestia Non desiderare la donna d’altri, non rendono merito al messaggio più importante che emerge chiaramente da questo film intelligente e sottile. Il racconto di incomprensioni familiari (quelle vissute in Danimarca sembra siano pesanti) o del solito tris marito moglie e l’altro, si trasforma, a dispetto del titolo, in una forte denuncia sociale e politica della inutilità delle guerre, dei disastri che ne conseguono e delle depravate pratiche militari. Anche se inizialmente la regista focalizza la trama del film sul conflitto parentale, non è solo di questo che vuole parlarci. Infatti è con la seconda parte del film che da voce al messaggio più importante in modo chiaro e potente: Attenzione! La guerra colpisce ad occhi bendati anche dove c’è pace.
Le vittime in questo caso sono i componenti di una famiglia danese composta da moglie, due bimbe, un marito che persegue la carriera militare e tutta la sua famiglia di origine composta da madre, padre e un fratello. Ognuno dei personaggi corrisponde a una precisa connotazione caratteriale ben focalizzata dalla regista, che però non inciampa in modelli stereotipati.
Il protagonista, Michael, è un borghese arrivato che beneficia di tutti quegli agi acquisiti con la carriera, il fratello invece è un emarginato, un violento alcolista uscito da galera e il loro padre il classico genitore partigiano che ammira e stima il figlio buono e non perde occasione per buttare in faccia all’altro la sua incapacità. Le donne si tengono a galla, in questa situazione un po’ difficile cercando di pacificare le incomprensioni dei maschi. E così scorre la loro vita quasi tranquilla, nella ripetizione quotidiana degli impegni scolastici, lavorativi e sociali… Ma un giorno, in cui Michael decide di smantellare la cucina di casa, viene inviato inaspettatamente (la Danimarca non partecipa a guerre dal lontano 1864) in Afghanistan per una missione Onu.
E’ sintomatica la messa in scena dello smantellamento della cucina, quasi inutile viene da pensare, invece è un’importante metafora: la cucina, ritenuta psicanaliticamente il fulcro della famiglia viene smembrata e diventa presagio di una serie di disgrazie.
Infatti la scena si sposta dove c’è guerra dove subito viene abbattuto l’elicottero che trasporta Michael in una missione, poiché non si ritrova il corpo, un funzionario dell’esercito informa la famiglia della sua morte.
Dopo lo stupore e il lutto, tutti cercano di continuare a vivere. Le cicatrici lasciano segni sulla pelle ma spesso il dolore che le provoca da più spessore alle vite degli esseri umani. Per questo il fratello sbandato si sente investito del dovere di protezione nei confronti della cognata e delle nipoti e si prodiga per loro. Il primo segno del suo ritrovato equilibrio è l’impegno a ripristinare la cucina: come un nuovo progetto di vita l’arredamento prende corpo, pian piano, nel locale svuotato insieme a un timido sentimento per la cognata.
Le sorprese non finiscono e dalla Danimarca, la macchina da presa si sposta in Afghanistan dove ritroviamo Michael prigioniero ma vivo. La prigionia è dura e il prezzo da pagare per la liberazione è troppo alto per cancellarsi al suo rientro in patria. Tutta la famiglia, ignara di quanto ha dovuto subire in guerra, lo accoglie con ritrovato amore e con tanta pazienza cercando di ricomporre la vita interrotta, ma i sensi di colpe commesse, pur forzatamente, per salvarsi dalla morte, deformano la realtà e non abbandonano Michael.
Il film ha vinto al festival di San Sebastian con il riconoscimento a Miglior Attore a Thomsen e Migliore Atrice alla Nilsen e il Premio del Pubblico al Sumdance Festival 2005.