Almanya – La mia famiglia va in Germania

Condividi questo post

 

                                                Regia e Sceneggiatura di Yasemin e Nesrin Samderel

Estratto dalla recensione di Elisabeth Jankowski

dal sito della Libreria delle Donne di Milano

 

Un film di buoni sentimenti che sono veramente buoni. Le due sorelle registe ripercorrono la storia della famiglia. La narratrice e nipote dell’emigrante Hüseyin racconta al più giovane, nato da madre tedesca e dal figlio, già nato in Germania, di Fatma e Hüseyin, la storia della famiglia perché non rimanga una macchia bianca sulla loro carta dei sentimenti.
Canan, la nipote, studentessa di 22 anni e narratrice, è incinta ma il padre di suo figlio non è né turco né tedesco, è uno studente inglese: il processo di mescolamento non si ferma una volta accettata l’apertura ad altre culture.
Prima Hüseyin e poi anche Fatma e i primi tre figli erano arrivati a Dortmund nella Ruhr. Nel 1961, l’anno della costruzione del muro, quando cessa il flusso di rifugiati dall’est, vengono firmati dei trattati tra la Germania e la Turchia per far arrivare un gran numero di lavoratori. La Ruhr, oggi luogo di parchi, musei, teatri, festival e siti di archeologia industriale, ha un tasso altissimo di disoccupati perché la famosa industria pesante che l’aveva resa ricca e popolosa, meltingpot alla tedesca, è diventata un nostalgico soggetto da film.
Le due sorelle Samdereli, nate loro stesse a Dortmund sulla Ruhr (Yasemin ha studiato cinema all’accademia di Monaco), mettono in scena una commedia per prendere in giro, a mio avviso, quel conflitto, principalmente maschile, che si sviluppa attorno alla tematica dell’identità. Infatti il piccolo protagonista Cenk Yilmaz mette in moto tutto il racconto che serve a spiegare perché lui non sa rispondere alla domanda se è turco o tedesco. Non viene scelto né dai compagni turchi né da quelli tedeschi per giocare nella squadra di calcio della scuola. E lui non sa da quale parte stare. Non conosce nemmeno più il turco mentre i figli della coppia e la nipote più grande parlano ancora la lingua d’origine.
Una storia che si muove sull’asse maschile, dal nipote al nonno – per fortuna molto pacifici e simpatici, cioé dei patriarchi buoni, come scrive la storica rivista femminista “Emma”-. Gli uomini determinano le azioni, mentre le donne in gran numero presenti nel film muovono gli uomini verso una conclusione che rovescia il loro chiodo fisso che è appunto l’identità e il ritorno a casa vincitore.
Il film narra la storia di Hüseyin, quando riesce a ricongiungersi con la moglie e i primi tre figli. Sono loro, la bambina e i due bambini, che guardano questo mondo straniero con i loro occhi. Sulle prime hanno grande paura della Germania perché la gente del piccolo paese dell’Anatolia gli aveva raccontato che in Germania la gente mangia carne umana, beve sangue ed è molto sporca. Specialmente il Cristo sofferente sulla croce incute terrore ai bambini. Ma i figli di Hüseyin e Fatma si abituano presto e vogliono festeggiare anche loro il Natale come i tedeschi. Sono sedotti da alcune cose autentiche della cultura locale. Difatti, è solo la seduzione che può far desiderare l’integrazione e la relazione con gli altri.