Regia e Sceneggiatura di Sabiha Sumar
Recensione di Silvana Ferrari
La regista Sabiha Sumar, nata a Karachi nel 1961, ha studiato cinema a New York e successivamente Scienze Politiche e Relazioni Internazionali. Dal ’96 fa ricerche sulla violenza subita dalle donne, durante il periodo di separazione del Pakistan dall’India. E’autrice di numerosi documentari girati ‘dalla parte delle donne’ per Channel Four e per il canale tedesco Zdf.
In questo film, il suo primo lungometraggio, con un linguaggio cinematograficamente semplice, e con l’uso della rappresentazione della ‘storia esemplare’ ci introduce e accompagna nel suo percorso di analisi e di svelamento di momenti e di episodi significativi della storia del suo paese. Vuole portarci alla conoscenza delle radici delle sofferenze che tanto affliggono le donne, ma anche gli uomini, in questi nostri tempi.
Sceglie a questo scopo due periodi: il 1947 e il 1979.
Nel 1947 le acque chete e silenziose dei pozzi pakistani accolsero i corpi di donne sikh e musulmane costrette dagli uomini delle loro famiglie a togliersi la vita. Fratelli, padri e mariti le preferivano morte piuttosto che prigioniere dei nemici: impedendone la cattura salvavano il loro ‘onore’, evitando di subire l’onta e la vergogna. E la memoria storica altrettanto silenziosamente si chiuse sopra questi massacri.
Ayesha, la protagonista, ribellandosi al suicidio impostole dal padre, fuggì, al contrario della madre e delle sorelle; fatta prigioniera, fu salvata dal suo carceriere, che sposò diventando musulmana e riuscendo a ricostruirsi un’esistenza per sé dignitosa.
La troviamo, nel 1979,- anno in cui è ambientata la storia, – vedova, preoccupata per il futuro dell’amatissimo figlio, un giovane gentile ma debole e sfaticato preso dall’amore per la bella Zoubida, e dai sogni per il futuro. E’serena, in un ambiente ricco di relazioni e di intense attività femminili.
Nel 1979, con il colpo di stato e la presa del potere del generale Zia, iniziò nel paese un processo di forzata islamizzazione e i segni dell’intolleranza si fecero presto sentire. Una delle prime vittime della propaganda è il figlio Saleem, che presto si identifica nei discorsi violenti, negli ideali settari propugnati dagli integralisti, trovando finalmente un ruolo e uno scopo nella vita.
Il completo cambiamento di comportamento del figlio, divenuto seguace di idee violente e oltranziste, che trasformano la fede in uno strumento di propaganda politica, la amareggiano e distruggono tutto ciò che in quegli anni aveva cercato di realizzare e in cui aveva creduto come la pacifica convivenza realizzata in una vita semplice, piena di relazioni, vissuta nella convinzione, spesso ripetuta ai suoi studenti di Corano che ‘Tutti i giusti vanno in Paradiso’ .
Inoltre, la ricomparsa di un fratello, che la vuole condurre al capezzale del padre morente, svela il segreto delle sue origini, così gelosamente nascosto, riportandola a un passato di orrore e di sofferenza; il conseguente disprezzo del figlio e l’esclusione operata dalla comunità la convincono che il periodo delle speranze e dei progetti di un futuro per lei e per Saleem sono finiti. Le acque del pozzo, a cui non si era più avvicinata, la attirano e la accolgono in un legame, mai rotto, con le donne che nel ’47 lì furono uccise.
Ultima scena. Rawalpindi 2002.
Mentre indossa il medaglione di Ayesha, Zoubida pensa a quanto spesso il suo ricordo le riempia la mente e dice: ‘Qualche volta la sogno e cerco di conservare quei sogni nel mio cuore perché vorrei tanto non svanissero’.
Saleem, ormai dirigente di un movimento islamico, da uno schermo televisivo, ribadisce la necessità di trasformare le regole del Corano in leggi dello stato, rispettando così l’originaria ispirazione che aveva portato alla creazione dello stato pachistano.